Pressione fiscale alle stelle: le cause- Partitaiva.it


Con Giorgia Meloni è record della pressione fiscale dal post Covid. Per la premier la causa sarebbe da ricercare nell’aumento dell’occupazione. Una narrazione che trasforma persino il fiscal drag – quel meccanismo che ci rende più poveri, al netto degli aumenti degli stipendi – in un presunto indicatore di successo economico. Per fare quadrare i conti urge una nuova riforma fiscale.

“L’imbarazzo” della premier sulla pressione fiscale

“Mi trovo un po’ in imbarazzo a dover spiegare a dei parlamentari della Repubblica una cosa del genere – ha detto intervenendo nel programma XXI Secolo su Rai 1, in risposta a coloro che sostengono che il Governo abbia aumentato le tasse – ma forse ci aiuta con i cittadini. Quando aumenta la pressione fiscale, non è necessariamente perché aumentano le tasse. Se c’è un percettore di reddito di cittadinanza e, invece di percepire il reddito di cittadinanza, quella persona trova un posto di lavoro, pagando le tasse aumenta la pressione fiscale. Quindi perché aumentano i dati sulla pressione fiscale? Perché c’è più gente che lavora, perché questo governo ha portato il record storico di proventi dalla lotta all’evasione. Quindi le entrate aumentano quando le tasse non aumentano”.

La pressione fiscale è il rapporto tra le entrate dello Stato – imposte e contributi versati da cittadini e imprese – e il Prodotto interno lordo. E se è vero che sono cresciuti i lavoratori dipendenti, è anche vero che questi fanno crescere – oltre alle imposte – anche il Pil. Dobbiamo davvero credere che i lavoretti saltuari di qualche ex percettore siano stati tutti regolarizzati, non facendo variare il Pil ma soltanto le entrate dello Stato?

Chi ha pagato più tasse nel 2024 tra inflazione e fiscal drag

L’Istat ha messo nero su bianco che, nel 2024, la pressione fiscale è aumentata di oltre un punto percentuale ed è arrivata al 42,6% del Pil (contro il 41,4% dell’anno precedente). Il bollettino delle entrate del dipartimento Finanze del Mef spiega perché: gli incassi relativi a imposte dirette (+8,6%) e indirette (+3,1%) hanno raggiunto quota 603.830 milioni di euro, grazie soprattutto al gettito Irpef e all’Ires.

Il contributo percentuale maggiore deriva dalle ritenute su interessi e premi corrisposti dalle banche (+328%), frutto del tentativo di contenimento dell’inflazione da parte della Bce.

In termini di valore assoluto, invece, il contributo più alto deriva dai lavoratori dipendenti del settore privato (99.159 milioni) e del settore pubblico (94.127 milioni). Ed è allarme “fiscal drag”, che è l’aumento implicito delle imposte per effetto dell’inflazione. Perché in Italia, esclusi i regimi di flat tax, i lavoratori pagano le tasse sul reddito in base a un sistema progressivo: chi guadagna di più, paga di più. Ma con l’inflazione, il valore del reddito scende, i prezzi aumentano, il potere d’acquisto si riduce e, dunque, il lavoratore diventa più povero.

Ad oggi, tuttavia, l’Irpef resta del 23% entro i 28 mila euro, del 35% fino a 50 mila euro e del 43% sopra i 50 mila euro.

L’urgenza di una riforma che riduca la pressione fiscale

Le riforme e gli aumenti salariali non riallineano il potere d’acquisto.  A sostenerlo al Corriere della Sera Marco Leonardi e Leonzio Rizzo, rispettivamente professori di Economia politica alla Statale di Milano e di Scienze delle finanze all’università di Ferrara.

Se le tasse restano proporzionalmente le stesse, in assenza di una riforma fiscale adeguata, a prescindere dagli incrementi degli stipendi, il reddito reale non cambia. Infatti i dati Istat dicono che la spesa per consumi finali delle famiglie è cresciuta solo dello 0,4% e che settori nevralgici come l’abbigliamento (-3,6%) e la salute (-3,7%) hanno subìto un’importante contrazione.

Fisco, le promesse dimenticate di Meloni e Salvini

Nel 2013 Giorgia Meloni, allora deputata, presentò una proposta di legge assieme ad altri colleghi di partito, tra i quali l’attuale presidente del Senato Ignazio La Russa, per inserire il principio costituzionale secondo cui la pressione fiscale non potesse superare il 40% del Pil. “Questo vieterebbe ai governi di continuare a pagare la mostruosa spesa pubblica italiana mettendo le mani nelle tasche degli italiani”, diceva.

Adesso se n’è dimenticata, al pari dell’abolizione delle accise che, invece, non ha mai eliminato e dell’abbassamento del costo delle bollette, visto l’aumento dell’IVA sul gas. Ed è morto pure il cavallo di battaglia di Matteo Salvini, la sua no tax area.

Il paradosso di un Governo che celebra l’aumento della pressione fiscale come indice di successo economico rivela la distanza siderale tra propaganda e realtà. L’amnesia selettiva che colpisce tutti i partiti, mostrando quanto sia breve il percorso che separa la retorica dell’opposizione e delle campagne elettorali dal pragmatismo del governo, pone gli italiani davanti a una nuova sfida, non solo economica ma anche cognitiva: discernere tra fatti e narrazioni, tra dati reali e interpretazioni strumentali, affinché la capacità critica non diventi l’ultimo baluardo della democrazia.



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