Tre settimane fa, su queste stesse pagine, riflettevamo su come la strategia tariffaria degli Stati Uniti – con i dazi come arma politica ed economica – rappresentasse non solo una frattura nei principi del libero mercato, ma anche un pericolo concreto per la stabilità economica globale. Oggi, dopo che la realtà ha cominciato a mostrare i primi effetti tangibili di questa escalation, è il momento di tornare sull’argomento. Perché la guerra commerciale innescata dagli Usa non è solo una partita geopolitica tra potenze.
È una catena di conseguenze che arriva dritta anche nelle nostre aziende, nelle nostre case, nei nostri portafogli.
Il 2 aprile l’amministrazione americana ha aumentato in modo drastico i dazi sui propri partner commerciali, portando l’aliquota media a oltre il 23%, salvo qualche ripensamento a distanza di pochi giorni. Una mossa senza precedenti, che ha avuto l’effetto immediato di agitare i mercati finanziari e gettare i governi e le imprese nell’incertezza. Non si tratta di un singolo provvedimento mirato, ma di una guerra a tutto campo: una strategia commerciale a 360°, che ha colpito praticamente ogni Paese e ogni prodotto.
E proprio questa assenza di selettività sta generando quella che potremmo definire una tempesta perfetta. Perché al danno diretto delle tariffe si sommano effetti secondari che stanno contaminando la fiducia, la competitività e la solidità macroeconomica. Gli Stati Uniti si sono lanciati in un braccio di ferro globale, ma nel farlo rischiano di danneggiare in modo grave anche se stessi. E con loro, tutti gli altri.
In Italia, l’impatto è già visibile in settori chiave come l’agroalimentare. L’introduzione dei dazi su formaggi, salumi e liquori ha colpito proprio quei prodotti che sono simbolo del made in Italy. L’export di Parmigiano Reggiano, Grana Padano e Prosciutto di Parma verso gli Stati Uniti ha subito una battuta d’arresto. Aziende che avevano costruito relazioni commerciali stabili e una reputazione solida ora devono fare i conti con margini erosi e sbocchi di mercato in calo.
Ma il problema è ben più ampio. I dazi aumentano i costi delle importazioni. E circa metà delle importazioni italiane (e americane) sono input produttivi, cioè componenti, materiali e tecnologie che le aziende utilizzano per fabbricare i loro prodotti. Quando queste voci si rincarano, tutta la catena si inceppa. Il risultato è che le nostre imprese – dalla meccanica di precisione in Lombardia alla moda in Toscana, dalla ceramica emiliana alla filiera del mobile in Veneto – vedono diminuire la competitività, rallentano la produzione e, in alcuni casi, si trovano costrette a tagliare.
E se l’impatto diretto è già pesante, quello indiretto rischia di esserlo ancora di più. La fiducia – nelle imprese come nei consumatori – è il carburante dell’economia. Quando regna l’incertezza, tutti rallentano: si rimandano investimenti, si congelano assunzioni, si consuma meno. È il tipico effetto domino che abbiamo già visto in passato (per il Covid), e che oggi torna ad affacciarsi, aggravato da una situazione globale già fragile per colpa di guerra, inflazione e crisi energetica.
Ci sono poi altri effetti collaterali da non sottovalutare. Il calo delle borse seguito alla decisione americana ha ridotto la ricchezza finanziaria percepita, cioè quella sensazione diffusa di “benessere” che le famiglie e gli investitori associano all’andamento dei mercati. Anche se il valore reale del reddito o dei risparmi depositati in banca non cambia nell’immediato, vedere scendere il valore del proprio portafoglio titoli o del fondo pensione genera un impatto psicologico forte. Si ha l’impressione di essere più poveri, anche quando il saldo del conto corrente è identico a quello del mese prima. Questo “effetto ricchezza” agisce sul comportamento: chi si sente più vulnerabile spende meno, rimanda acquisti, riduce i consumi discrezionali. E così la percezione – non la condizione reale – diventa una leva potente che frena la domanda interna e contribuisce a rallentare l’economia. E la banca centrale americana – già alle prese con l’equilibrismo tra lotta all’inflazione e sostegno alla crescita – si trova ora costretta a navigare a vista, aumentando il rischio di errori di politica monetaria. Errori che, come sappiamo, finiscono per influenzare anche l’economia europea, e quindi la nostra.
Nel frattempo, negli Usa si parla di reshoring: riportare in patria la produzione, per ridurre la dipendenza estera. Una strategia in parte comprensibile, specie nei settori ad alta tecnologia come i semiconduttori. Ma se applicata indiscriminatamente – anche a beni a bassa produttività come giocattoli o calzature – rischia di produrre l’effetto opposto: ridurre la produttività complessiva e aumentare la competizione per risorse già scarse, come la manodopera specializzata. E in Italia, dove le imprese ad alta tecnologia (come l’automazione emiliana o l’elettronica campana) faticano già a trovare personale qualificato, una dinamica simile avrebbe effetti destabilizzanti.
Nel precedente articolo scrivevo che la risposta più saggia poteva essere quella di “sopravvivere e lasciar fare”, affidarsi alla flessibilità del mercato e alla capacità delle imprese di adattarsi. Ma oggi la posta in gioco è cresciuta. Non basta più adattarsi: bisogna anticipare, leggere in anticipo i segnali deboli, dotarsi di strumenti che permettano di reggere l’urto e, se possibile, trasformare l’instabilità in opportunità. Cosa significa in concreto? Che le imprese italiane devono investire in capacità di analisi geopolitica ed economica. Che le istituzioni europee devono costruire una risposta coordinata, solida e coerente. Che la politica italiana deve tornare a fare politica industriale, sostenendo le filiere più esposte e valorizzando quelle che possono trainare l’economia nei prossimi anni.
La globalizzazione non è morta, ma è entrata in una fase nuova, meno lineare, più conflittuale. E in questo scenario, i dazi non sono solo una misura commerciale. Sono lo specchio di una crisi più profonda del modello di interdipendenza economica che ha retto il mondo negli ultimi trent’anni. Se l’Italia vuole uscirne indenne, deve cambiare passo. Non possiamo più permetterci di reagire sempre dopo. È tempo di prevenire, leggere, scegliere.
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