L’esenzione temporanea dai dazi di smartphone, pc e semiconduttori annunciata sabato da Donald Trump sarà un altro boomerang per l’economia statunitense? In attesa che il volubile inquilino della Casa Bianca decida le tariffe ad hoc a cui sottoporre l’elettronica, alcuni osservatori fanno notare come la mossa in apparenza distensiva nei confronti della Cina e di sicuro favorevole a produttori come Apple non sia centrata rispetto all’obiettivo dichiarato di rivitalizzare la manifattura Usa. E non solo perché l’incertezza è di per sé nemica di crescita e investimenti. “L’ultima svolta consente l’ingresso gratuito dei prodotti finiti, ma al contempo tassa gli input, scoraggiando attivamente la produzione statunitense”, ha fatto notare nella sua newsletter il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Un caso paradigmatico di come le politiche del tycoon rischino di rendere l’America non “di nuovo grande“, ma più povera.
Come si arriva a questo effetto avverso? L’esclusione, oltre ad essere dichiaratamente provvisoria, non riguarda componenti chiave delle apparecchiature elettroniche come le batterie agli ioni di litio. Che, se importate dalla Repubblica Popolare, restano gravate da dazi del 145%. Il risultato paradossale, ha esemplificato l’analista economico Joseph Politano, è che un laptop prodotto in Cina che monti una batteria al litio cinese al momento è soggetto solo al dazio del 20% già in vigore come ritorsione per il ruolo di Pechino nella crisi del fentanyl. Mentre un produttore statunitense che acquisti la stessa batteria per assemblare un laptop simile in una fabbrica Usa la pagherà carissima causa tariffa maggiorata. E dovrà dunque aumentare il prezzo di vendita al consumatore, rischiando di andare fuori mercato. Non basta: dai dazi sono stati esentati i macchinari necessari per produrre semiconduttori perché sarebbero stati controproducenti in vista dell’auspicato re-shoring della produzione negli Usa, ma la stessa logica non è stata applicata a tutti gli altri tipi di macchinari altrettanto indispensabili se si punta a rivitalizzare la manifattura.
Si dirà che è un problema di breve periodo perché l’esclusione è dichiaratamente provvisoria: a breve la Casa Bianca annuncerà barriere specifiche perché, ha detto il segretario al Commercio Howard Lutnik, “non possiamo fare affidamento sulla Cina per le cose fondamentali di cui abbiamo bisogno: i nostri farmaci e i nostri semiconduttori devono essere prodotti in America”. Ma il quadro non cambia se si amplia lo sguardo agli altri settori: nonostante l’esenzione dei dispositivi elettronici e la tregua di 90 giorni sui dazi reciproci decisa a sorpresa il 9 aprile per trattare i partner commerciali, il 145% imposto su tutto l’import cinese e il 25% che colpisce auto (in attesa del rinvio preannunciato lunedì), acciaio e alluminio fanno sì che il livello tariffario statunitense rimanga il più alto da inizio Novecento. Mentre l’indice di incertezza della politica economica rilevato dalla Federal reserve è ai massimi da cinquant’anni, in un’area (vedi grafico sotto) che stando ai precedenti storici avvia gli Usa a una sicura recessione. Sarebbe la prima scatenata da un presidente partendo da una situazione di economia in salute. L’amministrazione Trump con il consigliere economico Kevin Hassett continua a sostenere di non aspettarsi un calo del pil, ma lunedì l’ad di Goldman Sachs David Solomon ha detto che il rischio è aumentato e il gestore di hedge fund Ray Dalio dal canto suo teme addirittura “qualcosa di peggio”, una “rottura dell’ordine monetario” con al centro il dollaro e della struttura geopolitica nata dopo la Seconda guerra mondiale.
Superfluo poi ribadire che utilizzare i dazi come strumento per sostenere l’industria – al netto delle scarse probabilità di successo per fattori oggettivi come la mancanza di sufficiente manodopera qualificata in molti settori – richiede di ignorare il danno inflitto ai consumatori ed elettori. Secondo un’analisi dello Yale Budget Lab, precedente rispetto all’ultima decisione su smartphone e pc, i prezzi al consumo in assenza di reazioni da parte della Federal reserve sarebbero destinati ad aumentare nel breve periodo del 2,9% causando alla famiglia media americana una perdita di potere d’acquisto di 4.700 dollari. Nel lungo periodo, a valle di una probabile riduzione del consumo di beni importati, i rincari si assesterebbero all’1,7% con una perdita di 2.700 dollari per famiglia. Per fare un esempio i prezzi delle auto, le cui catene produttive tendono ad essere sovranazionali, saliranno del 12% nel breve periodo e del 19% nel lungo: significa 9.000 dollari in più rispetto al prezzo medio di un’auto nuova del 2024. Questo senza considerare l’effetto domino che attraverso l‘aumento dei tassi sui titoli di Stato sta facendo salire i tassi di interesse sui mutui.
Non sembra un caso se gli ultimi sondaggi vedono crollare il gradimento nei confronti delle scelte di Donald Trump. Stando a una survey commissionata da Cbs, oggi solo il 44% degli americani approva la gestione dell’economia da parte del presidente e il 40% le sue mosse rispetto all’inflazione: entrambi in dati sono in calo di 4 punti rispetto a fine marzo. Il 59% del campione ritiene che il Paese stia attraversando una fase economica negativa e per il 53% la situazione sta peggiorando.
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