Imprese familiari, il passaggio generazionale si fa su misura


Le imprese familiari rappresentano la spina dorsale dell’economia e sono considerate un punto di forza del nostro Paese. Al contempo, però, sono indicate come una delle cause dell’arretratezza del nostro sistema economico. È un falso problema. La criticità non sta nell’assetto proprietario, ma nella mancanza di una struttura di governance che supporti i passaggi generazionali e favorisca la ricerca di manager esterni.

Quali sono i modelli che oggi funzionano? E perché? E quali possono essere adottati per quali aziende (non ce n’è uno universale).

Come le grandi famiglie imprenditoriali italiane vengono messe alla prova dai passaggi generazionali – Agnelli, Berlusconi, Benetton, Del Vecchio – si parva licet componere magnis, lo stesso avviene per le aziende familiari di medie o piccole dimensioni. Solo che, per paradosso, in questo secondo caso il tema è sì meno sensazionalistico, ma più importante. Il “Family Business” in Italia rappresenta infatti all’incirca il 90% del tessuto produttivo e da lavoro, più o meno, al 75% degli occupati italiani. Anzi, secondo i dati Aub-Aidaf, le imprese familiari con ricavi di almeno 20 milioni generano un fatturato totale di 730 miliardi di euro, creano lavoro più velocemente delle altre, hanno una redditività più alta e un indebitamento più basso. Senza contare la continuità aziendale: 15 delle 100 aziende più antiche al mondo sono nostrane.

Perché le imprese familiari faticano a sopravvivere

Il problema è che solo un terzo delle imprese familiari sopravvive al primo passaggio generazionale, e ancor meno al secondo e al terzo. In ragione del contesto socio economico in rapido sviluppo, della competizione internazionale, della necessità di adeguarsi velocemente ai cambiamenti, di aggiornarsi e di innovare continuamente si trovano spesso ad affrontare sfide impegnative di varia natura che coinvolgono la proprietà in differenti modalità: sfide legate al passaggio generazionale, ai conflitti interni, alla resistenza al cambiamento, al deficit di competenze, alla crescente concorrenza internazionale e alle dimensioni ridotte per competere adeguatamente sui mercati.

Le società di consulenza sono ormai da anni un attore fondamentale, visto che spesso sono chiamate a supportare le aziende nell’affrontare le sfide sopra indicate, con modelli di approccio in grado di adattarsi alla complessità delle situazioni: la “consulenza di processo”, detta anche consulenza collaborativa, si è per esempio dimostrata nel tempo particolarmente efficace nell’aiutare le aziende famigliari grazie ad un approccio basato sulla relazione, sull’empowerment del cliente e sulla facilitazione, piuttosto che sull’offerta di soluzioni “pronte per l’uso”.

Tale modello fa riferimento a esperienze nate negli anni ’70 del secolo scorso, in particolare legate a Gerard Egan, professore della Loyola University di Chicago, e noto per i suoi contributi nel campo del counseling e della comunicazione, e Edgar Schein, professore presso MIT Sloan School of Management, conosciuto come uno dei pionieri nel campo della cultura e consulenza organizzativa. I loro testi di riferimento, ancora oggi studiati in quanto preziosi per la ricchezza di spunti di riflessione e di ispirazione per l’attività quotidiana, sono: “The Skilled Helper” diGerard Egan, pubblicato per la prima volta nel 1975 e “Process Consultation Revisited: Building the Helping Relationship” pubblicato da Edgar Schein nel 1999, testo in cui l’autore enfatizza la collaborazione tra consulente e cliente per comprendere e affrontare le dinamiche interne di un’organizzazione. Proviamo a riassumerli.

Imprese familiari: principi fondamentali della consulenza di processo

La nostra esperienza nell’assistere le imprese famigliari ci ha consentito di verificare l’importanza di alcuni principi fondamentali della consulenza di processo, in particolare:

  • Focalizzazione sul processo invece che sul contenuto: il consulente non fornisce soluzioni preconfezionate né dirige il cliente verso un risultato specifico: il suo ruolo è aiutare il cliente a riflettere sui processi in corso e a identificare e risolvere i propri problemi. Per questo ci si concentra su come avvengono le interazioni, le decisioni e le dinamiche organizzative, piuttosto che sul cosa fare;
  • Costruzione della relazione di aiuto: la relazione consulente-cliente è il fulcro dell’approccio: il consulente lavora per creare un rapporto di fiducia e apertura, essenziale per un’interazione efficace. È centrale il concetto di relazione simmetrica, in cui il consulente non si pone come un’autorità, ma come un facilitatore;
  • Riconoscere la propria ignoranza: il consulente deve essere consapevole dei propri limiti e aperto all’apprendimento continuo, evitando di presumere di conoscere tutte le risposte;
  • Ogni azione è un intervento: qualsiasi interazione o osservazione può influenzare il sistema del cliente; pertanto, è essenziale agire con consapevolezza e responsabilità;
  • Il problema e la soluzione appartengono al cliente: il consulente facilita il processo, ma è il cliente che deve identificare e implementare le soluzioni, garantendo così un cambiamento sostenibile.

La diagnosi congiunta

L’applicazione dei principi sopra indicati risulta molto utile in particolare nelle fasi di analisi della situazione e di sviluppo di un valido piano di azione: spesso, infatti, il titolare dell’azienda ignora che cosa esattamente non funzioni e quindi non sa di quale genere di aiuto effettivamente necessita.

Per questo nella fase di analisi può essere cruciale avviare un percorso,fondato su una relazione di aiuto reciproco tra cliente e consulente, che accompagni l’imprenditore/manager a mettere a fuoco il problema e che, grazie ad un processo di maggiore consapevolezza e crescita positiva, lo renda attivamente impegnato anche nella generazione della correzione. Perché tutto ciò avvenga è necessario che il consulente si impegni a creare una relazione equilibrata con il cliente, capace di aumentarne l’autostima e di ridurre il sentimento di dipendenza o controdipendenza che il cliente può coltivare nelle prime fasi di conoscenza reciproca.

Il consulente è chiamato a “resistere alla tentazione” di portare subito la soluzione e di proporre quello che, in base all’esperienza, si sa già che potrebbe essere utile se non addirittura risolutivo. In questo modo le misure correttive potranno essere elaborate in collaborazione tra consulente ed i membri dell’organizzazione: questi, infatti, sanno, meglio di chiunque altro, che cosa potrà o non potrà funzionare nella loro cultura e si potrà così evitare il pericolo che le soluzioni siano inadatte o provochino opposizione.

Grazie a questo approccio il consulente, dunque, eviterà il rischio che i suoi consigli siano cortesemente accettati, ma successivamente “messi in un cassetto”, o ancora peggio che siano rifiutati con l’implicita accusa di non aver colto la reale problematica.

Infine, grazie all’approccio sopra descritto è possibile il raggiungimento di un importante obiettivo collaterale dell’attività consulenziale: trasmettere le competenze necessarie a diagnosticare le future situazioni critiche e a intervenire in modo costruttivo, sviluppando le capacità del cliente nell’affrontare le difficoltà di tutti i giorni.

Centralità dell’osservazione oggettiva

Nel processo di diagnosi e di individuazione delle soluzioni possibili, è cruciale che la fase iniziale di osservazione della realtà sia la più accurata possibile, evitando il rischio di distorsione percettiva legato a meccanismi difensivi come il diniego (cioè il rifiuto di accettare alcune informazioni che riguardano noi stessi e la nostra organizzazione) o la proiezione (cioè la tendenza di vedere negli altri ciò che in realtà opera in noi stessi). A tale rischio si aggiunge quello legato alle reazioni emotive non adeguate a quanto osservato, causate dal fraintendimento di quanto è accaduto ovvero da una reazione esagerata o errata: tutto ciò può portare a valutazioni e giudizi impropri e quindi a decisioni che possono sortire un peggioramento della situazione, pur avendo agito apparentemente in modo razionale.

Nel suo libro, Edgar Schein porta un esempio, particolarmente incisivo, per descrivere le situazioni che si possono creare se l’osservazione iniziale è errata e la reazione emotiva è inadeguata.

“Dave è un manager, ed è impegnato a studiare per un esame – sta seguendo un MBA pagato dalla sua azienda – che dovrà sostenere la mattina successiva. Si isola nello studio raccomandando al figlio di sei anni di non disturbarlo. Mezz’ora dopo il bambino appare alla porta, interrompendolo: Dave si arrabbia e punisce il figlio disobbediente. Più tardi Dave scopre, vedendo il figlio particolarmente turbato e chiedendo spiegazioni alla moglie, che il bambino era entrato nel suo studio, su richiesta della madre, per chiedergli se desiderasse una tazza di caffè”.

Questo esempio dimostra che la fase di osservazione della realtà è particolarmente delicata perché c’è il rischio di giudicare in maniera preconcetta anziché concentrare la propria attenzione nel capire quanto realmente è successo: frequenti sono infatti i malintesi, principalmente causati da assunti culturali non messi in discussione, inclinazioni personali che portano a meccanismi di difesa e da esperienze passate che inducono a pensare di sapere in anticipo cosa aspettarsi.

Consulenza in aziende familiari: più il come che il che cosa

Nel corso di numerose esperienze in aziende familiari è emerso che, in contesti in cui dinamiche aziendali e dinamiche familiari si intrecciano e dove si mescolano tematiche di varia natura (patrimoniali, fiscali, gestionali ma anche psicologiche e relazionali), l’attenzione al processo con cui si svolge l’attività consulenziale – il come – è più importante delle attività portate a termine – il che cosa – e delle competenze specifiche messe in campo.

La capacità del consulente di entrare in sintonia con il cliente, di stimolarlo a raccontare la situazione, di ascoltarlo con attenzione ed obiettività, di elaborare il contenuto senza intervenire prematuramente con osservazioni, suggerimenti e consigli, di aiutare il cliente a guardare la situazione da un nuovo punto di vista, fino ad arrivare ad inquadrare le problematiche e le possibili soluzioni alternative, è chiave in situazioni complesse dove, ancor più che nelle normali organizzazioni, al centro ci sono persone e le loro relazioni.

Una volta dedicato il tempo necessario ad aiutare il cliente nel processo di diagnosi della realtà e di sviluppo di un piano di azione coerente, sarà molto più semplice individuare quali specialisti possano essere necessari per realizzare le azioni di miglioramento che l’imprenditore/manager, insieme alle altre persone coinvolte, avranno co-costruito e quindi pienamente condiviso.

Come sopra già evidenziato, la principale trappola che ogni consulente dovrebbe evitare, per fare in modo che la sua attività sia veramente efficace, è quella di sentirsi professionalmente in dovere di portare subito la soluzione, non dedicando il tempo necessario a conoscere in profondità la situazione attraverso un processo che aiuti il cliente a mettere a fuoco il problema ed individuare la soluzione più adatta.

Applicare i principi che si ispirano al modello della Consulenza di Processo consente di ridurre significativamente il rischio di cadere in tale trappola, con maggiore soddisfazione del cliente e, anche, del consulente.



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